Il medico che nasconde all’azienda ospedaliera l’esercizio della libera professione extramuraria, nella fattispecie come fiduciario di una compagnia assicurativa, è obbligato a restituire l’indennità di esclusività e di risultato e la retribuzione di posizione (nella misura del 50%), ma non a rimborsare gli emolumenti percepiti per l’attività illecitamente svolta privatamente. (Consulta Il Testo della sentenza).
Questa è l’opinione della terza sezione centrale di appello della Corte dei conti che, con la sentenza n. 277/2014 del 6 maggio, di conferma della pronuncia della sezione giurisdizionale della Calabria, ha obbligato un camice bianco a rimborsare all’ospedale dal quale dipende la somma di 74.980,69 euro (oltre rivalutazione monetaria, interessi legali e spese di giudizio).
La necessità di un’autorizzazione espressa all’esercizio di extramoenia, si legge nella sentenza, è inequivocabilmente imposta dalla legge (art. 53, comma 19 del decreto legislativo 165/2001) che esclude a priori che possa configurarsi un’autorizzazione implicita «per fatti concludenti». Il medico non può portare a giustificazione l’esistenza di caos amministrativo, l’assenza di specifiche disposizioni e l’assenza di controlli che regnava nella propria azienda. Poiché, con tutta evidenza, affermano i giudici, alla richiesta deve seguire l’autorizzazione, la cui mancanza non consente di ritenere rimosso l’ostacolo giuridico che si frappone al libero esercizio dell’attività altrimenti vietata, con tutte le conseguenze che ne seguono sotto il profilo delle connesse responsabilità, sia sul piano disciplinare che su quello delle conseguenze patrimoniali da danno erariale.
Secondo l’impianto accusatorio, il medico era venuto meno all’obbligo assunto con l’opzione per il rapporto esclusivo, che gli avrebbe consentito l’esercizio della libera professione in regime di intramoenia allargata ma non l’attività di fiduciario di una compagnia di assicurazione con contratto libero professionale, in nome e per conto proprio. Conseguentemente egli aveva svolto in maniera palesemente irregolare l’attività intramuraria allargata nel proprio studio medico privato, senza averne concordato le modalità di svolgimento con il direttore generale e versando, inoltre, la sola percentuale del 5% stabilita dalla tabella allegata al regolamento aziendale.
Alla violazione si sommava anche il fatto di avere esercitato altra attività sanitaria a pagamento, aggiuntiva rispetto a quella rendicontata come intramuraria all’azienda sanitaria, in grave violazione, degli articoli 4, comma 7 della legge 412 del 1992, comma 5 della legge 24 dicembre 1996, n. 662 e 72, comma 4 della legge 448 del 1998. A nulla è valso il fatto di avere correttamente dichiarato al fisco i compensi in quanto, afferma la Corte, la regolarità fiscale non sostituisce l’omesso passaggio autorizzativo. (Fonte: Il Sole24Ore Sanità)