Il parere del legale: diagnosi ritardata

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Quesito: un mio collega di medicina generale mi ha confidato di essere preoccupato per la morte di un suo paziente, causata da una grave patologia tardivamente diagnosticata, in quanto, se, a seguito della visita effettuata molti mesi prima del decesso, gli avesse prescritto degli approfonditi esami specialistici, sarebbe stato possibile, grazie alla diagnosi precoce, intervenire tempestivamente con una terapia che, anche se non avrebbe potuto garantire la completa guarigione del soggetto, gli avrebbe probabilmente consentito di vivere molto più a lungo. Potrebbe il mio collega essere chiamato a rispondere della morte del suo paziente per aver sottovalutato i sintomi riferitigli da quest’ultimo?

 
Risponde il Dott. Alessio Pastorelli
alessio.pastorelli@hotmail.it  -Roma Gentile lettore, proprio sul tema della responsabilità per colpa professionale medica nell’ipotesi di errore diagnostico, si è recentemente pronunciata la Corte di Cassazione, IV Sezione Penale, con la sentenza 16 marzo 2010, n. 10452.
A proporre il ricorso alla Suprema Corte era stato il difensore di una dottoressa milanese, condannata in primo grado alla pena di mesi sei di reclusione (sostituiti con la libertà vigilata) ed al risarcimento del danno, da liquidarsi in separato giudizio civile, nei confronti della costituita parte civile (peraltro con la previsione di una provvisionale immediatamente esecutiva di Euro 70.000,00), con sentenza confermata dalla Corte di Appello, la quale aveva disposto la sostituzione della libertà vigilata con la pena pecuniaria della multa di Euro 6.840,00.
Ebbene, all’imputata era stato contestato il delitto di omicidio colposo, previsto dall’art. 589 c.p., per aver cagionato la morte di una sua paziente, appunto perché, «nella qualità di specialista in medicina generale e da anni medico curante della vittima, […] a fronte di dolori addominali, gonfiore al fegato e scariche di feci» da tempo lamentati, «non aveva disposto alcun idoneo accertamento diagnostico, pur in presenza della predetta sintomatologia e di riferimenti anamnestico-familiari tumorali, prescrivendo solamente una dieta, dopo avere effettuato un’esplorazione rettale con esito negativo».
Dunque, sempre secondo la ricostruzione dei fatti contenuta nella sentenza in questione, «a seguito di ciò si era maturato un ritardo nell’accertamento della patologia tumorale» della vittima, diagnosticata solo dopo un considerevole lasso di tempo «da uno specialista gastroenterologo a cui la paziente si era rivolta», e «tale ritardo aveva reso possibile il determinarsi dell’evento morte ed in ogni caso una sensibile accelerazione della progressione della malattia che aveva anticipato il decesso».
Ora, la Corte di Cassazione, pur annullando la sentenza impugnata, emessa dalla Corte di Appello di Milano, per sopravvenuta prescrizione del reato, ha dichiarato infondato il ricorso proposto dal difensore della dottoressa, ritenendo che la motivazione della decisione di secondo grado non palesasse una «manifesta illogicità» relativamente, in particolare, «al profilo dell’affermazione della penale responsabilità dell’imputata».
Infatti, la Suprema Corte ha evidenziato come, nella fattispecie, i giudici di appello, «richiamando gli esiti della istruttoria dibattimentale e della perizia», avessero rilevato che «una diagnosi tempestiva (all’epoca della visita […]), cioè un anno prima della diagnosi del tumore effettuata da altro sanitario, tenuto conto dello stato di sviluppo minore della malattia, avrebbe con alto grado di probabilità statistica e logica quantomeno ritardato di anni il decesso».

Pertanto, la Corte di Cassazione ha sottolineato come i giudici di appello avessero ritenuto che «l’errore iniziale diagnostico» avesse causato «un conseguente errore terapeutico e, quindi, la impossibilità di procedere ad un tempestivo intervento chirurgico che avrebbe evitato l’evento, o quantomeno avrebbe prolungato sensibilmente la sopravvivenza della paziente», facendo presente che «sul punto il giudice di merito» aveva rinviato alla «nota giurisprudenza elaborata in tema di nesso causale, laddove è stato affermato che “nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva”.

Per comprendere meglio quest’ultimo passaggio della sentenza della Suprema Corte, è opportuno precisare che si definiscono «reati omissivi» quegli illeciti penali tramite la previsione dei quali il Legislatore incrimina condotte rappresentate da omissioni e che, nell’ambito di tale categoria, si distingue tra reati omissivi «propri» ed «impropri», a seconda che l’illecito penale consista nel semplice mancato compimento di un’azione imposta da una norma (es. omissione di soccorso, omessa denuncia di reato, ecc.), a prescindere dalla verificazione di un evento come conseguenza della stessa condotta omissiva, ovvero che l’omissione sia punita in quanto abbia determinato un evento lesivo che il reo aveva l’obbligo giuridico di impedire.
Dunque, nel caso di specie, è stato ritenuto dai giudici di merito, sulla base di argomentazioni non censurate in sede di legittimità, che l’imputata fosse responsabile del decesso della sua paziente, in quanto tale evento mortale doveva considerarsi causalmente riconducibile alla condotta omissiva della stessa dottoressa, la quale, se avesse prescritto alla vittima gli opportuni esami diagnostici, le avrebbe, con elevata probabilità logica, consentito, quantomeno, di vivere molto più a lungo.
La Corte di Cassazione, inoltre, non ha riscontrato né «carenze» né «illogicità» della motivazione della sentenza impugnata anche per quel che attiene alla ricorrenza della colpa e, in particolare, alle considerazioni dei giudici di appello secondo le quali, «a fronte della possibilità di diagnosticare la malattia» fin da un anno prima della diagnosi dello specialista gastroenterologo, «la condotta omissiva» dell’imputata, «peraltro protratta nel tempo tanto da accompagnare la prescrizione del clisma opaco […], con la diagnosi di “tenesmo rettale, alterazione dell’alvo”, senza alcun sospetto oncologico, costituiva una grave negligenza medica, idonea a configurare l’elemento soggettivo del delitto contestato”, ossia la colpa.
In conclusione, quindi, l’omessa tempestiva diagnosi di una patologia, successivamente evolutasi con conseguenze letali, in presenza dei presupposti di cui sopra, può comportare, per il medico che non abbia disposto gli opportuni accertamenti diagnostici, l’imputazione di omicidio colposo, con il conseguente rischio di una condanna penale.